Giovani e politica: disillusione o nuovo senso di partecipazione?

Per molti giovani la politica è diventata una parola che suona lontana, quasi spenta. Non evoca più entusiasmo né fiducia, ma stanchezza, diffidenza, a volte persino fastidio. È come se si fosse creata una distanza tra chi decide e chi vive davvero le conseguenze delle decisioni. Eppure, dietro questa distanza apparente, non c’è solo disillusione: c’è anche un modo diverso di guardare il mondo, un nuovo linguaggio, una forma inedita di partecipazione che non sempre sappiamo riconoscere.

I ragazzi di oggi non sono meno attenti o meno sensibili rispetto alle generazioni passate. Semplicemente, non si rispecchiano più nei modelli che la politica tradizionale continua a proporre. Non credono nelle promesse che restano parole, nei comizi urlati o nei simboli che non parlano più di valori ma di appartenenze vuote. Per loro la coerenza vale più dell’etichetta, il gesto vale più del discorso, l’azione concreta conta più della dichiarazione.

Forse non è vero che i giovani si sono allontanati dalla politica. Forse hanno solo deciso di viverla altrove.

Quando la politica smette di parlare alle persone

Negli ultimi decenni la politica si è riempita di formalità, di slogan ripetuti, di parole che suonano sempre uguali. Si è chiusa in un linguaggio che non sa più emozionare, che non tocca le vite reali delle persone. I giovani, che sono cresciuti in un mondo di connessioni, di immediatezza e di concretezza, non si riconoscono in questa lentezza che spesso diventa immobilismo.

Hanno visto scandali, promesse mancate, giochi di potere. Hanno imparato a diffidare di chi parla troppo e ascolta poco. E così, piano piano, si sono allontanati. Ma non dal desiderio di cambiare le cose: si sono allontanati da un modo di fare politica che non li rappresenta.

Il voto, per molti, non è più un gesto di partecipazione ma un atto di rassegnazione. “Tanto non cambia nulla”, dicono spesso. E dietro quella frase, che può sembrare apatica, c’è invece una grande ferita. È la sensazione di essere invisibili, di non avere spazio, di non contare. Quando un sistema non ti include, smetti di crederci. E quando smetti di crederci, provi a costruirne un altro.

Un nuovo modo di partecipare

Chi guarda solo ai dati sull’astensionismo pensa che i giovani non si interessino più alla politica, ma basta guardarli meglio per capire che non è così. L’impegno non è sparito: ha solo cambiato forma. Oggi la partecipazione nasce da gesti piccoli ma reali, da scelte quotidiane che diventano atti politici senza bisogno di essere dichiarati tali.

Un ragazzo che sceglie un’università attenta all’ambiente, una ragazza che apre un canale social per parlare di salute mentale, un gruppo che organizza una raccolta fondi per la propria comunità: tutto questo è politica. È impegno civile, è desiderio di fare la differenza, ma con un linguaggio più sincero, meno ideologico e più vicino alla vita.

Il digitale ha amplificato questo movimento silenzioso. I social, spesso accusati di superficialità, sono diventati anche spazi di riflessione e attivismo. In quelle piazze virtuali, dove la politica istituzionale raramente riesce a entrare, i giovani discutono di ambiente, diritti, inclusione, giustizia sociale. Lo fanno con parole semplici, senza filtri, ma con una passione che non si può ignorare.

La politica che vivono non è più fatta di partiti, ma di cause. È orizzontale, non gerarchica. È immediata, non mediata. Non nasce per ottenere consenso, ma per generare cambiamento. Non ha bisogno di slogan perché parla con i fatti. E forse, proprio per questo, è più autentica.

L’ascolto che manca

Il problema, oggi, non è la mancanza di interesse, ma la mancanza di ascolto. I giovani non vogliono sentirsi raccontare il mondo da chi non lo vive più. Vogliono essere parte delle decisioni, portare la loro esperienza, condividere la loro visione di futuro. Ma troppo spesso vengono ridotti a una categoria statistica, un segmento da convincere durante le campagne elettorali e poi dimenticare fino al voto successivo.

Ascoltarli davvero significherebbe riconoscere che il loro modo di partecipare è diverso, ma non per questo meno importante. Significherebbe entrare nei loro spazi, nei loro tempi, nei loro linguaggi. Significherebbe abbandonare la retorica del “voi siete il futuro” per accettare che sono già il presente.

I giovani vogliono sentirsi parte di qualcosa che abbia senso, ma per questo serve una politica che torni a essere credibile, capace di mantenere le promesse, di spiegare le scelte, di ammettere gli errori. Una politica meno autoreferenziale e più umana. Più onesta.

E serve anche una società che non li giudichi con sufficienza, che non scambi il loro silenzio per disinteresse. Molti ragazzi non parlano perché hanno imparato che parlare non basta. Osservano, valutano, agiscono in altri modi. E mentre gli adulti discutono di “crisi della partecipazione”, loro partecipano davvero, ma con strumenti diversi, con una mentalità diversa, con una visione che guarda più lontano.

Una nuova idea di cittadinanza

Il futuro della politica non può nascere da chi si limita a conservarla, ma da chi la reinventa. E in questo i giovani hanno molto da insegnare. Hanno capito che la politica non è solo nelle istituzioni, ma nel modo in cui viviamo insieme. È nelle scelte di consumo, nella tutela dell’ambiente, nel rispetto verso gli altri, nella solidarietà quotidiana.

Ogni piccolo gesto può diventare politico se è mosso da una consapevolezza collettiva. Non servono grandi manifesti, basta un senso condiviso di responsabilità.

Il vero cambiamento avverrà quando smetteremo di pensare ai giovani come a spettatori da coinvolgere e cominceremo a considerarli coautori del presente. Quando capiremo che non è il loro disinteresse a essere il problema, ma la nostra incapacità di ascoltarli davvero.

Forse il futuro della politica sarà più fluido, meno rigido, più spontaneo. Non avrà confini netti né simboli da difendere. Sarà fatta di collaborazione, di comunità, di reti che si costruiscono dal basso. Sarà una politica che nasce dai bisogni veri e dalle relazioni reali, non dalle ideologie.

E se questo significa rompere con il passato, allora che sia una rottura necessaria. Perché ogni generazione ha diritto di reinventare il proprio modo di credere nel cambiamento.

Forse i giovani non scendono più in piazza con bandiere e slogan, ma ogni giorno, in modo silenzioso, scelgono come voler vivere e che mondo costruire. E quella, a ben vedere, è la forma più sincera di politica che ci sia: quella che nasce dal desiderio autentico di fare la differenza, anche senza chiedere il permesso.